Sfidare la musica

Comporre musica con l’obiettivo specifico di accontentare i fan può essere paternalistico ed esplorativo. Sfidare la musica, in termini artistici, per sua natura può alienare alcuni fan e può ispirarne altri, ma senza questa dissonanza non c’è una reale conversazione, non c’è rischio, non ci sono lacrime né sorrisi, e nessuno ne rimarrà scosso, e nessuno ne rimarrà affezionato.

Nick Cave

Allargare il senso di ciò che è possibile nell’arte

“Quando ero in Inghilterra all’inizio di ottobre, ho rilasciato un’intervista ad Empire. Mi è stata posta una domanda sui film Marvel. Ho risposto. Ho detto che ho provato a guardarne alcuni e che non fanno per me, che mi sembrano più vicini a dei parchi a tema che a dei film per come li ho conosciuti e amati nella mia vita. E che, alla fine, non penso che siano cinema.

Alcune persone sembrano aver preso l’ultima parte della mia risposta come un’offesa o come la prova del mio odio per la Marvel. Se qualcuno è intenzionato a caratterizzare le mie parole in quella luce, non c’è niente che io possa fare per ostacolarlo.

Molti franchise sono realizzati da persone di notevole talento artistico. Si può vedere sullo schermo. Il fatto che i film stessi non mi interessino è una questione di gusto personale e temperamento. So che se fossi più giovane e che se avessi raggiunto la maturità in un altro momento, sarei probabilmente entusiasta per questi film e forse avrei persino voluto crearne uno io stesso. Ma sono cresciuto in un altro periodo e ho sviluppato una concezione dei film – di quello che erano e di quello che avrebbero potuto essere – che è più lontana dall’Universo Marvel di quanto noi sulla Terra lo siamo da Alpha Centauri.

Per me, per i cineasti che ho imparato ad amare e rispettare, e per gli amici che hanno iniziato a girare film nello stesso periodo in cui l’ho fatto io, il cinema era rivelazione – estetica, emotiva e spirituale. Riguardava i personaggi – la complessità delle persone e la loro natura contraddittoria e talvolta paradossale, il modo in cui possono farsi del male, amarsi l’un l’altro e improvvisamente ritrovarsi faccia a faccia con se stessi.

Si trattava di affrontare l’imprevisto sullo schermo e nella vita che il cinema drammatizzava e interpretava, allargando il senso di ciò che era possibile nell’arte.

E quella era la chiave per noi: era una forma d’arte. Ci fu un dibattito all’epoca a tal proposito, quindi ci siamo schierati dalla parte del cinema per affermare che fosse come la letteratura, la musica o la danza. E abbiamo capito che l’arte poteva essere trovata in molti luoghi diversi e in altrettante forme – in Corea in fiamme di Sam Fuller e Persona di Ingmar Bergman. In È sempre bel tempo di Stanley Donen e Gene Kelly, in Scorpio Rising di Kenneth Anger, in Questa è la mia vita di Jean-Luc Godard e Contratto per uccidere di Don Siegel.

O nei film di Alfred Hitchcock. Suppongo che si possa affermare che Hitchcock fosse il franchise di se stesso. O che fosse il nostro franchise. Ogni nuovo film di Hitchcock era un evento. Trovarsi in mezzo alla gente in un vecchio cinema a guardare La finestra sul cortile era un’esperienza straordinaria: un evento creato dalla chimica tra il pubblico ed il film stesso, ed era elettrizzante.

E in un certo senso, alcuni film di Hitchcock erano anche dei parchi a tema. Sto pensando a L’altro uomo, in cui il climax si svolge come una giostra in un vero parco di divertimenti. O a Psycho, che ho visto come spettacolo di mezzanotte nel suo giorno di apertura: un’esperienza che non dimenticherò mai. Le persone sono rimaste sorprese ed elettrizzate e non sono state deluse.

Sessanta o settanta anni dopo, stiamo ancora guardando questi film e ci meravigliamo di fronte a loro. Ma sono i brividi e gli shock che ancora ci ammaliano? Io non credo. I set di Intrigo internazionale sono sorprendenti, ma non sarebbero altro che una successione di dinamiche ed eleganti composizioni e tagli, senza le emozioni dolorose al centro della storia o l’assoluta perdita del personaggio di Cary Grant.

Il climax di L’altro uomo è una grande impresa, ma sono l’interazione tra i due personaggi principali e la performance profondamente inquietante di Robert Walker che risuonano ancora oggi.

Alcuni sostengono che i film di Hitchcock avevano una somiglianza tra di loro, e forse è vero – lo stesso Hitchcock ha riflettuto a tal proposito. Ma la somiglianza che troviamo tra i film dei franchise di oggi è tutta un’altra cosa. Molti degli elementi che definiscono il cinema come io conosco sono presenti nei film della Marvel. Ciò che non c’è è la rivelazione, il mistero o il genuino pericolo emotivo. Niente è a rischio. I film sono realizzati per soddisfare una serie specifica di esigenze e sono progettati come variazioni di un numero finito di temi.

Sono sequel nel nome, ma sono remake nello spirito. E ogni cosa in essi non potrebbe essere fatta diversamente. Questa è la natura dei franchise cinematografici moderni: prodotti di ricerche di mercato, testati appositamente per il pubblico, verificati, modificati, rivisti e rimodificati fino a quando non sono pronti per il consumo.

Un altro modo di dirlo, sarebbe che si tratta di tutto ciò che i film di Paul Thomas Anderson, di Claire Denis, di Spike Lee, di Ari Aster, di Kathryn Bigelow o Wes Anderson non sono. Quando guardo un film di uno di quei registi, so che vedrò qualcosa di assolutamente nuovo che mi porterà a fare esperienze inaspettate e forse persino inimitabili. La mia concezione di ciò che è possibile raccontare attraverso storie con immagini in movimento e suoni, verrà ampliata.

Quindi, potreste chiedervi, qual è il mio problema? Perché non lasciare semplicemente che i film sui supereroi e altri franchise facciano il loro lavoro? Il motivo è semplice. In molti luoghi di questo Paese e in tutto il mondo, i franchise sono ora la vostra scelta principale se volete vedere qualcosa sul grande schermo. È un momento pericoloso per la cinematografia e oggi abbiamo meno cinema indipendente che mai. L’equazione è stata capovolta e lo streaming è diventato il metodo di fruizione principale. Tuttavia, non conosco un singolo regista che non vorrebbe creare un film per il grande schermo, da proiettare davanti al pubblico nei cinema.

Io sono incluso. E sto parlando da persona che ha appena completato un film per Netflix. Questo, e solo questo, ci ha permesso di realizzare The Irishman nel modo in cui volevamo farlo, e per questo sarò sempre grato. Vorrei che il film venisse proiettato nei cinema per un periodo di tempo più lungo? Certo che lo vorrei. Ma non importa con chi realizzi il tuo film, il fatto è che gli schermi nella maggior parte dei multiplex sono affollati da franchise.

E se state per dire che è semplicemente una questione di domanda e offerta, e di dare alle persone ciò che vogliono, sono in disaccordo. Se alle persone viene dato solo un genere di cose, e viene venduto all’infinito solo quello, ovviamente ne vorranno di più.

Ma, potreste controbattere, non possono semplicemente andare a casa e guardare qualsiasi altra cosa su Netflix, iTunes o Hulu? Certo, ovunque tranne che sul grande schermo, dove il regista o la regista voleva che fosse visto il suo film.

Negli ultimi 20 anni, come tutti sappiamo, l’industria del cinema è cambiata su ogni fronte. Ma il cambiamento più inquietante è avvenuto di soppiatto e nella notte: la graduale, ma costante eliminazione del rischio. Molti film oggi sono prodotti perfetti e fabbricati per un consumo immediato. Molti di loro sono ben realizzati da team composti da persone di talento. Tuttavia, mancano di qualcosa che è essenziale per il cinema: la visione unificante di un singolo artista. Perché, ovviamente, il singolo artista è il fattore più rischioso di tutti.

Non sto certamente insinuando che i film dovrebbero essere una forma d’arte sovvenzionata o che lo siano mai stati. Quando il sistema degli Studios di Hollywood era ancora vivo e vegeto, la tensione tra gli artisti e le persone che gestivano il business era costante ed intensa, ma era una tensione produttiva che ci ha dato alcuni dei più grandi film mai realizzati. Nelle parole di Bob Dylan, i migliori erano “eroici e visionari”.

Oggi, questa tensione è scomparsa, e in molti nel settore hanno un’assoluta indifferenza verso il concetto di arte e un atteggiamento nei confronti della storia del cinema che è allo stesso tempo sprezzante e proprietario – una combinazione letale. La situazione, purtroppo, è che ora abbiamo due campi separati: c’è l’intrattenimento audiovisivo e c’è il cinema. Di tanto in tanto si sovrappongono, ma sta diventando sempre più raro. E temo che il dominio finanziario dell’uno venga utilizzato per emarginare e persino sminuire l’esistenza dell’altro.

Per chi sogna di fare film o ha appena iniziato, la situazione in questo momento è brutale e inospitale per l’arte. E l’atto di scrivere semplicemente queste parole, mi riempie di una terribile tristezza.»

Martin Scorsese

Quieta non movere et mota quietare

 

Ho sognato che c’era la fine del mondo. E che l’unico essere umano che contemplava la fine era Franz Kafka. Nel cielo i Titani lottavano a morte. Da una sedia di ferro battuto del parco di New York Kafka vedeva il mondo bruciare. – (Sogno n° 31 Roberto Bolaño)

 

“Ho sognato che dopo la tempesta uno scrittore russo e i suoi amici francesi sceglievano la felicità. Senza chiedere né pretendere nulla. Come chi si abbatte privo di sensi sul suo tappeto preferito”. – (Sogno n° 50 Roberto Bolaño)

Da questo abbandono

“La natura si occulta dietro una realtà apparente. Solo l’artista è ammesso nel recinto misterioso dove si sprigiona, per un’improvvisa fiducia, quel corto circuito di simpatia in virtù del quale la natura cede e si manifesta.

L’opera nasce da questo abbandono.

Fatto solare, l’ispirazione, per cui la natura s’inchina all’artista e domina obbedendo, amorosamente; fatto semplice e complesso come tutte le intimità naturali, volo meridiano dell’ape regina inseguita dal maschio.

Allo scultore questa sovranità è inesorabilmente negata. La natura gli fu madre per brevissimi giorni: fu rivelazione o scoperta, mai fonte d’ispirazione.

L’uomo, unico soggetto, divenne nei secoli oggetto e si ridusse a costume.

Per placare le allusive paure, incalzanti dalla terra dal mare dal celo, nacque, strumento dell’idolatria, la statuaria, e fissò gl’ignoti fantasmi in immagini distinte da particolari attributi.

Incanto e sgomento primordiali le diedero autentica bellezza; ma svelato fin dall’infanzia del mondo ogni mistero, esaurite le passioni, la scultura divenne pietosa ripetizione.

[…]

Una volta le stelle erano stelle, ora non sono che sistemi. Non ha più ragione il volo, ma il calcolo.

(Arturo Martini – La scultura lingua morta)

Antologia

Non possiamo avere di certo un’arte soverchiamente allegra che aiuti la digestione di un cuor contento borghese.

[…] io credo alla strada, ai fatti della strada, alla vita vivente e mutevole, all’umanità cui piace stare in piedi e mordere il vento e l’azzurro delle salite.

Sorgerà un artista come una brutta giornata. Una di quelle giornate d’inverno tutte nere, fredde, pungenti, dalla pioggia appuntita e frenetica che ti sbatte in faccia e sul corpo a conciate, quasi fossero lanci a manciate di pruni. Di dolori avrà fatta la vita, continuo, infinito, per non poter giungere a dare con la sua opera la pace a sé né agli altri. Non conoscerà compromessi; tra i suoi atti e la sua arte tutto sarà coerenza. La croce addossatasi la porterà non come condanna, ma quale simbolo di fede. Unico tormento: l’arte; sola preoccupazione: donare.

(Ottone Rosai)

Carne viva

Ogni questione specifica, caro Ennio, batte solo su questo punto: la quantità di carne viva che ci sarà dentro un quadro o un libro. L’arte non si fa per ‘grazia’ di Dio o per rivelazione ecc. Dio non c’entra, né la grazia, ma solo la quantità di noi stessi, come sangue intelligenza e vita morale che ci si butta dentro […]

L’arte non è più patrimonio della borghesia o degli intellettuali; è patrimonio di tutti. Senza scendere di un gradino, senza cedere uno solo dei suoi privilegi, senza farsi comprensibile per partito preso, senza tradizione del c… Ma con tutta la sua pienezza e forza sanguigna, così forte da avere ragione. Utile (altra parola difficile da capire) agli uomini, come qualche volta è successo nella storia. Utile per il suo contenuto morale, per il suo accento di chiarezza, per il suo senso di giustizia e di attiva partecipazione alla vita degli uomini.

(Renato Guttuso)

Paura della pittura

Il terrore fondamentale e primordiale, la paura del mondo, della vita, della libertà, dell’uomo: la Paura della pittura.

La parola, amore delle idee e delle cose, non può più legare quello che è irrimediabilmente scisso: ma soltanto ricercare, fatta simbolica, difesa e certezza. La pittura non è più espressione creatrice, ma magia, strumento di impossibile salute. La paura del deserto dell’anima desolata è il senso della pittura contemporanea: i suoi oggetti, non uomini e cose viventi, ma idoli.

E il colore si staccherà dalle forme, e ognuno degli indissolubili elementi dell’espressione pittorica si isolerà e perderà i legami con gli altri, e diventerà esso stesso oggetto di incomprensibile spavento: e la ragione farà strada separata dal senso; e i passaggi dall’uno all’altro momento diventeranno meccanici, o simbolici. Per gli uomini, ombre spaventate, il mondo da cui sono assenti perde ogni concretezza.

L’immagine dovrebbe liberarci dal Dio, o almeno dalla solitudine; popolando il vuoto del mondo, dando forma alle cose ambigue, liberandoci dal terrore dell’informe e dell’incerto.

La paura dell’uomo, cioè la paura della pittura, è il senso della pittura contemporanea.

Non così sono le imitazioni, là dove, pur esistendo la crisi, essa non era profondamente, sinceramente sentita, ma accolta come una moda o un imperativo formale […] là dove ci si nascondeva per non vedere, e si ripetevano i vecchi modi della pittura, per timore dellla nuova, e del nulla. Qui era paura della pittura in un senso più triviale: mancanza cioè di coraggio, fedeltà a una eterna accademia. […]

Questo mondo vuoto, e che si aveva orrore di lasciare vuoto, non si popolava dunque di mostri eroici, ma di figure e di forme tradizionali, nascondendo la paura con il classicismo o con l’ironia, e accogliendo, di quella tragedia, soltanto gli schemi, come arcadici travestimenti.

Picasso e gli altri hanno creato le immagini della desolazione contemporanea, le immagini della Paura; e, senza timore del loro aspetto, ci hanno dato le forme mutevoli dei transeunti Dei del nostro tempo. Un’arte barbara e religiosa ne è nata, senza possibilità di di sviluppo se non monotono: altre generazioni non sono venute. Il domani non si prepara con i pennelli, ma nel cuore degli uomini […]

Dal sommo della paura nasce una speranza, un lume di consenso dell’uomo e delle cose. Muoiono gli dei, si crea la persona umana. Possono la morte e  la notte rivolgere il destino? La guerra dell’uomo con se stesso è finita, se davvero l’arte ci indica il futuro, e se possiamo leggerlo sul vito e nei gesti degli uomini. E forse è nato chi prepara, nei quadri, l’annuncio della fine della separazione, l’amoroso sorgere di una pittura senza terrore.

(Carlo Levi)

L’opera viene da sé

Io che conosco il fatto della creazione, mi metto in un angolo, mi siedo, come il gatto aspetta il topo.

Prendo la statua dal particolare meno interessante, cioè il meno importante, quello che può suggestionarmi meno, quello che può dare a me più confidenza e meno soggezione; e quindi non parlo mai nel fare una statua, che essendo un’immagine già mi turba. E vado avanti, avanti, immaginandomi l’aldilà, che non voglio mai vedere.

Quando capisco che, adagio, questa operazione sta riuscendomi, e che è in pieno mio dominio, allora mi volto, e guardo la statua per la prima volta. Con un colpo, le apro gli occhi, ed è viva. Basta un colpo, l’ultimo.

In questo modo incominciando dal particolare, che non era nella visione, che non apparteneva all’immagine avuta inizialmente, comincio da ciò che non avevo pensato. Il famoso verso, che vien da Dio, me lo riservo per ultimo e le do il soffio finale. Il soffio è un tradimento inaspettato per la statua, e bisogna sempre aspettare un suo momento di distrazione.

Quando fai una statua, essa comincia subito ad apparire e siccome ogni cosa che nasce cerca di nascondersi per non essere scoperta, la statua comincia a dominarti, vorrebbe turbarti. E allora inizio la lotta e la finzione di non darle importanza e fingere di non vederla. Lei invece cerca sempre di guardarti negli occhi, e quindi non bisogna mai lavorare con la luce degli occhi, ma con la coda dell’occhio.

Se la guardi un attimo, è finita: tu hai già il concetto di quello che è. Se invece la trascuri, allora, a un dato momento, senza volerlo, si scopre e sente il desiderio di essere amata. È il momento in cui tutto diventa semplice, chiaro, perfetto; che tu la puoi guardare, come si ama quando viene il possesso. E io le do la scoppola. In quel momento colgo tutto il mistero, essa cede e si lascia condurre come dev’essere condotta.

Ho un paragone, che ripeto spesso. Là c’è un gatto, che è la creta, l’opera d’arte. Gli vai incontro per prenderlo e quello scappa. Allora fai l’indifferente, ti siedi. Dopo un minuto il gatto ti salta sulle ginocchia. Questa è l’opera d’arte: e allora la puoi accarezzare, e anche strangolare, è tua.

L’opera d’arte viene da sé, non è mai provocata dall’artista. Ed ecco quel che si dice ispirazione. Il mediocre artista l’aspetta in pigrizia, ma non gli arriverà mai, perché l’arte è sempre un’astuzia, simile a quella del macrot che inquieta la sua donna, fingendo di essere indifferente.

(G. Scarpa)

Trenta

“S’è forse deviata la linea dell’evoluzione umana? Perché siamo venuti a far parte dell’arida terra? Perché non dell’aria? Perché non del mare? […] Il potere d’attrazione del mare. Il desiderio del mare. Gli esseri umani affini al mare. Avvinti dal mare. Dipendenti dal mare. Costretti a ritornarvi.”

(H. Ibsen)